Delle armi e delle guerre

L’Oplita

I Greci erano un popolo avvezzo alla guerra. Lo testimonia la frequenza dei conflitti in cui le varie poleis greche erano impegnate, con nemici esterni o fra di loro. A questi conflitti, si aggiungevano forme più o meno legali di violenza come pirateria o rappresaglie.

Nonostante questo, il popolo greco non può dirsi un popolo guerriero: la guerra era regolata da una serie di leggi e norme civili e religiose che servivano per evitare che i conflitti diventassero sfrenati e selvaggi e la pace era universalmente considerata un bene prezioso (per quanto raro).

Oltretutto, i Greci non avevano un corpo militare professionista: con l’unica eccezione di Sparta, in cui la casta degli Spartiati esisteva esclusivamente per addestrarsi alla guerra, nelle altre poleis ogni cittadino aveva il diritto/dovere di armarsi a sue spese per la difesa della patria. I cittadini di censo più elevato godevano dei maggiori diritti politici e civili e – dato che avevano la possibilità di acquistare armamenti migliori – ci si aspettava che, in caso di necessità, combattessero.

Il fulcro degli eserciti greci era la fanteria pesante: l’oplita (il guerriero corazzato) che combatteva nella formazione serrata detta “falange” è la manifestazione più evidente di questo modello.
L’oplita era equipaggiato con una corazza di bronzo modellata (in seguito sostituita da una più leggera in lino), un elmo, una lancia di 2,5 metri, una spada (per quando la formazione si rompeva e la mischia si faceva serrata) e lo hoplon, il grande scudo circolare che dava il nome all’oplita.

Così equipaggiato, l’oplita marciava incontro alla formazione avversaria, finchè la distanza non era tale da consentire la carica. Gli Spartani procedevano in un silenzio impressionante, mentre gli opliti delle altre poleis, meno disciplinati, lanciavano grida di sfida e peana in onore di Ares. La carica portava le due formazioni a un violento urto frontale, seguito da una serie di spinte e duelli sanguinosi.

Nonostante la falange fosse il centro della battaglia, essa era affiancata da cavalieri, toxotates (arcieri, molto apprezzati soprattutto quelli cretesi) e peltasti, cioè guerrieri leggeri armati di giavellotti.

Il Peltasta

I peltasti erano guerrieri leggeri, armati di giavellotti e equipaggiati da uno scudo piccolo, a forma di mezzaluna, chiamato pelta.

I primi peltasti erano originari delle regioni a nord della Grecia, soprattutto la Tracia, da cui venivano reclutati come mercenari dalle poleis greche. Anche le mitiche Amazzoni, su molti vasi, vengono raffigurate equipaggiate di pelta.

L’importanza dei peltasti in battaglia divenne evidente nel 390 a.C., quando l’ateniese Ificrate – nel corso della Guerra di Corinto – li utilizzo contro un battaglione di opliti spartani, soprendendoli e sconfiggendoli, nonostante l’armamento e l’addestramento militare di questi ultimi fosse evidentemente superiore.

Se gli opliti puntano su disciplina, armamento e compattezza della formazione, i peltasti puntano sulla velocità: armati in modo leggero e non inquadrati in falange, possono correre intorno alla formazione avversaria, beragliandola con una pioggia di giavellotti.

Thumiama, gli antichi profumi

Dappertutto si spande odore soave
per il luogo bellissimo
profumi vari sempre
versano sulle are degli Dèi
nella pianura che splende lontano

Pindaro

I Greci davano grandissima importanza ai profumi. Per loro era segno di una potenza quasi divina il fatto che una essenza potesse spandersi, invisibile, nell’aria, producendo piacere o disgusto, attrazione o repulsione. Già da tempo, poi, si erano resi conto anche di come essi avessero un qualche influsso sulla salute, inducendo malessere o, al contrario benessere e purificando l’aria dai miasmi della malattia.

Gli Dèi stessi, dicevano, si nutrono di profumi ed è per questo che i sacrifici venivano bruciati. gli stessi Inni orfici, una raccolta di inni dei culti misterici greci giunti sino a noi vengono anche chiamati “profumi”, in quanto fornivano indicazione delle essenze profumate da bruciare per attirare gli Dèi.

Esisteva un grande mercato in Grecia di profumi e spezie e resine da cui derivarli. Dalla lontana Arabia, si facevano arrivare a caro prezzo gli ingredienti più pregiati, come l’incenso o la mirra, sulla quale addirittura circolava la leggenda che le fenici la usassero per costruirsi il nido in cui ardevano per poi rinascere dalle loro ceneri.

Queste essenze i Greci avevano imparato a miscelarle e a estrarne l’essenza profumata attraverso varie tecniche, che permettevano la realizzazione di oleoliti (l’estrazione diretta dell’olio essenziale dalla pianta attraverso distillazione non era infatti conosciuta).

Lo studio dei profumi, della loro influenza sull’organismo e della loro creazione divenne persino oggetto di studi filosofici e Teofrasto, discepolo e successore di Aristotele, dedicò a questo argomento una intera opera, sugli odori, preziosissima per ricostruire con metodi antichi oli profumati, ma anche per comprendere a fondo quale fosse per un antico abitante dell’Ellade l’importanza del profumo.

Una delle attività in cui il nostro gruppo si è applicato è la realizzazione di oli profumati secondo le ricette e le indicazioni di Teofrasto. Abbiamo perciò reso possibile assaporare essenze perdute quali l’Aegyption o il famoso Rhodinon, prodotto sull’isola di Rodi e commerciato in tutto il mondo antico.

Il gioco della Polis

L’ossa tue lavorate cangiarsi dovevano in pezzi
del gioco in guerra nato, Palamede.
Eri in guerra e fu lì che inventasti una guerra novella
in un campo di legno amica guerra

Antologia Palatina

La Polis è un antenato del gioco degli scacchi ideato, secondo la tradizione, da Palamede, personaggio mitico inventore, fra le altre cose, dell’alfabeto (Euripide, Palamede, fr. 578), dei numeri e della falange (Platone, Repubblica, 522d).
Il gioco in effetti riunisce in sè queste caratteristica: l’uso della logica e la strategia militare e, sempre secondo il mito, fu inizialmente pensato proprio per tenere occupati i soldati greci sotto le mura di Troia.

Come di gran parte dei giochi antichi, le regole esatte non ci sono rimaste, ma è possibile ricostruirle partendo da ciò che sappiamo della struttura del gioco e dai frammenti.


Si giocava su un tavoliere diviso in caselle. Ne sono state trovate di dimensioni diverse, per cui è possibile che non avessero un numero standard di caselle.


Teseo, nelle Supplici di Euripide, afferma che nella democrazia tutti gli abitanti sono uguali fra loro come le pedine del gioco della Polis, per cui possiamo facilmente intuire che non esistesse una differenza nelle possibilità di movimento e nella importanza dei pezzi, come negli scacchi o nel romano ludus latruncolorum. Le pedine venivano chiamate kya, cioè “cani”.

Assomigliando al successivo ludus latruncolorum, possiamo intuire che le pedine si possano muovere avanti e indietro, a destra e a sinistra, di quante caselle il giocatore voglia, come la torre del gioco degli scacchi.

Come nelle battaglie in falange, la vittoria si ha riuscendo ad accerchiare e isolare i membri della formazione avversaria. Per mangiare una pedina, la si deve bloccare fra due delle proprie, in orizzontale, in verticale o in un angolo.


L’unica eccezione è se una pedina viene mossa intenzionalmente nello spazio fra due pedine avversarie. In questo caso non viene mangiata.

Per i Greci, giochi come la Polis erano di grandissima importanza: essi insegnavano ad esercitare la logica e l’intelletto, istruivano ai principi su cui si reggeva la città e insegnavano le basi della strategia militare, oltre che a guardare le cose nel loro insieme, da diverse prospettive: la Polis infatti obbliga il giocatore a tenere sempre presente tutto ciò che avviene in ogni punto della scacchiera e insegna che ogni possibile mossa genera un concatenarsi di conseguenze sull’intero schema generale.

L’Eterno è un bambino che gioca muovendo i pezzi sulla scacchiera.
Di un bambino è il regno
Eraclito di Efeso

Eraclito di Efeso e l’infinita ricerca della conoscenza

Eraclito di Efeso era detto l’Oscuro, per la complessità enigmatica dei suoi aforismi.
Egli era profondamente convinto che l’esistenza fosse una totalità dinamica, in cui l’uiomo era in stretta connessione.

Conoscere, voleva dire essenzialmente rivolgere lo sguardo dentro di sé, in un infinito abisso di conoscenza, radicato nelle profondità dell’Essere.

La Filosofia di Platone, fra Rappresentazione e Modello

Originariamente pubblicato nella raccolta “Le maschere di Aristocle. Riflessioni sulla filosofia di Platone” (Limina Mentis, 2010), questo saggio si propone di mostrare quale fosse il rapporto fra la Filosofia di Platone e l’Arte, in particolare la Poesia e il Teatro.

Lo stesso è infatti “Pensare” ed “Essere”

Questo articolo, pubblicato per la prima volta nella raccolta “Elementi Eleatici” (Limina Mentis, 2012) tratta del rapporto fra il pensiero e l’Essere nel poema di uno dei più grandi filosofi della storia greca: Parmenide di Elea.

Libri e scrittura

C’é un aspetto strano che in realtà accomuna scrittura e pittura.
Le immagini dipinte ti stanno davanti come se fossero vive, ma se chiedi loro qualcosa, tacciono solennemente.
Lo stesso vale pure per i discorsi: potresti avere l’impressione che parlino, quasi abbiano la capacità di pensare, ma se chiedi loro qualcuno dei concetti che hanno espresso, con l’intenzione di capirlo, essi danno una sola risposta e sempre la stessa.

Platone, Fedro.

La parola greca per libro – biblÁon – deriva dalla parola bºbloq, che indica la corteccia interna e fibrosa del papiro. Nel periodo greco-romano, un libro non aveva la forma del volume che noi oggi conosciamo (e che si affermò probabilmente intorno al II sec. d.C., grazie anche allo sviluppo della pergamena).

Un libro poteva variare in dimensioni a seconda delle dimensioni del foglio di papiro, ma tendenzialmente un rotolo comprendeva circa 20 fogli. I fogli erano uniti in modo che l’area scritta presentasse le fibre di papiro in orizzontale, a parte il primo, il protocollo, che invece le doveva presentare in verticale e che aveva la funzione di proteggere lo scritto. Il testo era organizzato in colonne, due per foglio. All’incirca, un libro poteva contenere 1500 versi. Abbastanza per una tragedia o una commedia. Testi più lunghi venivano divisi in vari libri.

La Teogonia di Esiodo che noi abbiamo riprodotto arriva a comporsi, ad esempio, di 20 fogli. Arrotolota arriva ad avere il diametro di circa dieci centimetri e, srotolata, arriva a circa sei metri di lunghezza.